I) il nome
Situato nella piana sud - orientale del Quartier del Piave, il paese presenta un toponimo dall'origine incerta; chi lo fa derivare dall'andronimo romano Maurilius con suffisso "acu", in riferimento alla penetrazione romana nei primi secoli dopo Cristo; chi da "muri" per via delle muraglie di difesa; chi da "moria" cioè campo di morte deducendolo dalla dist ruzione di Nosledo; infine, secondo la tradizione popolare, il nome sarebbe una corruzione dell'espressione "muore il lago" con richiamo alla zona paludosa al termine della quale sarebbe sorto l'abitato.
II) Origini e trasformazioni del comune
L'ipotesi d'insediamenti risalenti all'età del bronzo è stata confermata anche dai ritrovamenti di tombe nel territorio. Nel 1935 a Moriago furono rinvenute sette tombe romane con completo arredo funebre databile tra il II ed il III sec. d. C.; un'altra tomba ad incinerazione venne alla luce durante lo scavo per la costruzione del nuovo campanile. I centri abitati conservano la caratteristica struttura romana: un abitato raccolto entro un recinto, al quale fa da perimetro una strada carrabile.
Nel XIII secolo i vari signori, impotenti di fronte alle pressioni del Comune di Treviso che andava sempre più affermandosi nella Marca, rinunciarono ai diritti feudali di sovranità a favore del Comune, pur di ottenere la cittadinanza di Treviso e di poter quindi partecipare alla vita comunale.
Nel periodo delle invasioni barbariche, durante il Medioevo, la popolazione era situata in quattro zone considerate più sicure per via delle condizioni ambientali: a nord dell'attuale chiesa di Moriago, oltre il Rosper; al limite dei Palù; il recinto fortificato dello scomparso villaggio di Nosledo; vicino alla scarpata d'accesso alle Grave. Finite le invasioni, ci fu un ritorno ai nuclei del periodo romano ed una feudalizzazione del territorio. Nel basso Medioevo ci fu una vasta opera di bonifica grazie all'opera dei monaci dell'abbazia di Vidor.
III) San Leonardo
La parrocchia più antica (San Leonardo) è quella di Moriago, si intuisce dai simboli cristiani risalenti ai secoli XIII - XIV, incisi su alcuni massi di pietra rinvenuti nella distrutta chiesa e posti nelle pareti esterne di quella nuova a forma di poligono, che poggia sulle rovine dell'antica parrocchiale distrutta dalla guerra nel 1918, al suo interno si trova una tavola del Pordenone e i famosi apostoli di Guido Cadorin: per ammirarli cliccare sulla foto della chiesa.
IV) Moriago diventa Comune
Il Comune di Moriago, con la frazione di Mosnigo e la località Nosledo, fino al 1797 fu un'appendice del comune di Vidor. Da quell'anno al 1805 appartenne con Vidor al distretto di Treviso. Divenne comune nel 1807 con Mosnigo ma perse di nuovo l'autonomia tre anni dopo quando fu aggregato nuovamente alla municipalità di Vidor, cantone di Valdobbiadene, distretto di Ceneda. Ritornò autonomo nel 1819 e venne chiamato Moriago "della Battaglia" con decreto presidenziale del 1962 quale riconoscimento per la memorabile impresa del 27 ottobre 1918 che pose le premesse per la vittoria di Vittorio Veneto. Fu all'alba di quel giorno che i primi reparti d'assalto del XXIII Corpo d'Armata del generale Vaccari, passato il Piave in piena e posto il Comando a Molino Menente, sorpresero e travolsero il nemico. Il luogo ove avvenne il cruento impatto, si chiamò "Isola dei Morti".
V) Tragedie e Calamità
Nei secoli scorsi anche Moriago fu colpito da calamità. La peste del 1629 - 1931, descritta dal Manzoni nei "Promessi Sposi", colpì anche il Veneto. Moriago fu decimata: i cadaveri furono sepolti negli orti e presso una chiesuola campestre dedicata a S. Marco, scomparsa nei secoli. Fino al 1880 esisteva in quel luogo un capitello che recava dipinte figure di appestati. A quel tragico avvenimento si ricollega anche un altro capitello a volta, sostenuto da due piccole colonne, eretto prima del 1631 sulla parete nord di casa Zancanaro. Vi era appeso un quadro della Vergine che i fedeli veneravano con singolare pietà perchè, la tradizione, ricordava che la peste non aveva mietuto vittime nel territorio oltre il capitello. Il colera del 1885 era testimoniato da un capitello in Via Roma nella cui nicchia interna era stata posta una statua in legno della Vergine dei Sette Dolori. Fatto erigere in quell'anno da certo Antonio Adami - Fiorin, il capitello fu demolito nel 1961 a causa dell'allargamento della strada. In suo luogo si vede oggi un'edicoletta in marmo con una statua lignea dell'Addolorata.
VI) L'emigrazione
Il Grande Esodo si verificò soprattutto negli anni Ottanta - Novanta dell'800. Le prime partenze si ebbero nel 1888 e poi nel 1896 quando cui molti partirono verso l'America del Sud per andare a dissodare terre vergini e conquistarsi una piccola proprietà. Il Brasile pagava il viaggio agli emigranti e concedeva loro un appezzamento di terra in proprietà, purché disboscassero la foresta e la riducessero a terreno agricolo. Gli emigranti veneti si stabilirono per lo più negli stati del Rio Grande do Sul ove diedero vita ad una serie di piccole colonie: Nuova Bassano, Nuova Treviso... Le cause vengono fatte risalire ai cattivi raccolti e alla grave crisi agraria che colpì l'Italia negli anni Ottanta dell'800, che fu particolarmente violenta per via dell'arretratezza dell'agricoltura, delle trasformazioni capitalistiche in atto nelle campagne e dell'inadeguatezza delle misure prese per fronteggiarla (protezionismo).
VII) L'emigrazione temporanea
Per certi contadini di montagna, o di zone depresse (come Moriago), era quasi una prassi. Avveniva soprattutto in primavera ed in estate e riguardava i giovani maschi in età lavorativa che partivano per la Francia, la Svizzera ed il Belgio. Ritornavano durante l'inverno portando a casa i soldi che permettevano alla famiglia di sopravvivere. Se a spostarsi era l'intera famiglia la scelta di permanenza all'estero diventava una necessità.
Il fenomeno si blocca con la 1^ Guerra Mondiale, per continuare nel periodo tra le due guerre, contadini e mezzadri ripresero la via dell'emigrazione verso l'Europa, con la valigia di cartone e, talvolta, qualche indirizzo dato da chi era già stato all'estero ed agevolava la partenza dei compaesani.
Oltre all'emigrazione volta a trovare lavoro si unì il fenomeno del fuoriscitismo, persone antifasciste che per non rischiare la prigione o la vita stessa erano costrette a riparare all'estero.Con il fascismo s'ingrossarono le grandi proprietà terriere e i più poveri diventavano i mezzadri ed i fittavoli disposti a trasferirsi anche lontano per poter vivere (Agro Pontino e Sardegna).Dopo la 2^ Guerra Mondiale e fino agli anni Sessanta l'emigrazione continuò spopolando il Quartier del Piave.
VIII) La tragedia del cinema
Nel 1928, il 26 febbraio, a Moriago accadde un fatto doloroso degno di un cenno visto che la eco si diffuse ampiamente anche nella intera stampa nazionale: l'incendio del cinema e la conseguente perdita della vita di 35 vittime quasi tutte giovani. In quel giorno, la famiglia Braga di Oderzo dava spettacolo cinematografico proprio in uno stanzone al primo piano del palazzo Battaglia, in pieno centro del paese. Le finestre che davano verso la strada erano protette da forti inferriate mentre le finestre poste sul cortile centrale erano libere da ostacoli. » da ricordare che Fausto Braga, coadiuvato dal figlio Pirro, non aveva ricevuto necessarie ed obbligatorie autorizzazione e la sala non era a norma di sicurezza per lo svolgimento della serata. Fu così che in quella sera e in quel posto si ritrovarono oltre 150 persone. verso le 21.30, appena iniziata la seconda parte del programma che comprendeva la proiezione di un filmato, la pellicola si ruppe e scoppiò un incendio. La folla che era agitata si accalcò vero le finestre, chiuse, e verso la porta che pare fu chiusa per evitare l'accesso ad altre persone. fu così che alcune persone si misero in fuga, chi gettandosi dalle finestre libere, chi dall'esterno (Ulisse Sernaglia) riuscì ad aprire la porta e a mettere in scampo numerose persone ma il parapetto della scala cedette e un gran numero di persone era aggrovigliato in una catasta, morendo soffocate dal fumo prodotto dalla pellicola e asfissiati. Altre persone, circa una quarantina, furono salvate da Guglielmo Testa che arrampicato su una scala, divelse una inferriata delle finestre. I funerali riuscirono imponenti dato che la celebrazione funebre svoltasi a Moriago fu celebrata nella piazza antistante la chiesa per riuscire a contenere le oltre diecimila persone convenute alla mesta cerimonia. Il rito funebre, presieduto dal Vescovo diocesano Mons. Eugenio Beccegato, fu toccante. Queste le parole del presule: "Non son venuto qui per parlare, ma per piangere per voi! Poveri figli di Sernaglia, di Moriago, di Fontigo e di Mosnigo; poveri figli miei colpiti da una sciagura che non si sa esprimere a parole. Sono qui a piangere per i figli vostri stroncati da una morte terrificante, tragica, indescrivibile. Questo suolo che ha visto cadere tante salme di giovani soldati durante la guerra, onorate in quel monumento che si chiama l'Isola dei Morti, è stato teatro di un disastro senza precedenti. Ma perchè, o Signore, avete permesso questo? […] Quando il dolore ci opprime così fortemente, anche il povero Vescovo si chiude, in uno strazio intensissimo. Foste morti almeno nella vostra casa, nel vostro letto, col soccorso dei vostri cari, abbracciati e confortati dalle carezze del babbo e della mamma, del fratello e della sorella. Siete usciti una domenica sera dalle vostre case, magari senza darvi un saluto per un lecito divertimento, cosí raro in questi figli del Piave. non ritornaste pi˘! Ossia, alcuni ritornarono, ma morti. I parenti si sono portati via i cadaveri: peso dolce, ma nel tempo stesso opprimente, soffocante. I fratelli, nello spasimo dell'istinto di conservazione han soffocato i fratelli. Mio Dio, quale spettacolo, quale strazio! Ma non siete senza onore!"
IX) Gli Albertini
Gli Albertini non hanno mai vissuto a Moriago, ma sono noti perchè possedevano numerose terre a Moriago e Mosnigo. Essi provenivano dal Mulinetto della Croda (Refrontolo) ed avevano proprietà anche in quel di Vidor, presso l'abazia dove pure hanno abitato; In Moriago lavoravano circa 200 famiglie mezzadrili nei fondi degli Albertini. L'ultima contessa Albertini è rimasta nella memoria della nostra gente: la signora Alfonsa Miniscalchi Erizzo, vedova Albertini, che non poteva avere figli, ogni sabato ed ogni domenica apriva la sua abitazione ai bambini del paese che potevano giocare tranquillamente nel suo grande e ben tenuto giardino. La contessa E' inoltre ricordata perchè prima di morire ha lasciato delle terre ai suoi mezzadri di Mosnigo, senza dimenticarsi del comune al quale regalò 1.500 mq per fare una piazza a Mosnigo, che per ordine del Podestà Giovanni Durante nel 1923 prese il nome di 'Piazza Albertini'.
2) La chiesa
Nel territorio della Sinistra Piave è molto antica la devozione a San Leonardo,nobile franco, che vive nel VI secolo come eremita in una capanna nei pressi di Limoges, fedele al motto: “Servire Dio negli uomini e gli uomini in Dio”.
Sembra già diffusa nell’XI secolo la fama dell’anacoreta, invocato in modo particolare da miseri, schiavi e prigionieri, perché spezza le catene della servitù e protegge gli umili dalle angherie dei potenti.
Il primo edificio sacro di Moriago dipende dalla chiesa matrice di Sernaglia, di cui si ha notizia fin dal 762, in epoca longobarda: nella vicina Pieve di Santa Maria Assunta, infatti, non solo si somministrano il battesimo e gli altri sacramenti, ma si stabiliscono le regole fondamentali per le comunità oranti.
Anche l’abbazia di Santa Bona, eretta nei primi anni del XII secolo sulle rive del Piave a Vidor, esercita un controllo sulla cappella, citata per la prima volta nel 1224 in un documento che attesta una donazione del conte Gabriele da Camino; è certo che i monaci pomposiani svolgono un ruolo guida decisivo, oltre che in ambito religioso, nella bonifica delle terre comuni, in particolare delle distese dei Palù.
Già prima del Trecento l’antica devozione diventa ufficiale: come testimonia un documento del 1336, infatti, il luogo cultuale è intitolato a San Leonardo; è il periodo in cui fioriscono numerose confraternite laiche, che auspicano un profondo rinnovamento spirituale.
Il modesto edificio primitivo in stile romanico subisce una radicale ristrutturazione nel 1458, sub regimine presbiteri Jacobi de Tremula; una lapide murata presso l’ingresso laterale di sinistra ricorda l’evento, corredata dai simboli dei santi venerati dalla comunità: i ceppi di San Leonardo, l’aquila di Santa Caterina d’Alessandria, il motto di San Bernardo (Ihs), il braccio di San Giovanni Battista e i gioghi di Sant’Antonio abate. Un’altra riporta i nomi dei costruttori, i mastri Giovanni e Antonio.
La chiesa, ampliata e rinnovata, appare ancora spoglia agli occhi del vescovo cenedese Nicolò Trevisan, che nella visita pastorale del 1475 auspica urgenti interventi. L’opera di completamento prosegue per anni e raggiunge l’apice nel 1528-30, quando Antonio de’ Sacchis, noto come il Pordenone, realizza la celebre pala dell’altar maggiore.
Con l’avvento della Controriforma la regola è elevata a parrocchia, forse nel 1569, pur conservando la sua originaria collocazione: dipendente dalla pieve di Sernaglia, soggetta al giuspatronato dell’abbazia di Santa Bona di Vidor.
Dopo alcuni interventi di conservazione, è ufficialmente consacrata nel 1746 dal vescovo Lorenzo Da Ponte.
Nella seconda metà dell’Ottocento la chiesa, ampliata e restaurata, presenta pianta basilicale, con tre altari (San Leonardo, Madonna Assunta e Madonna della Cintura). All’interno si trovano una tela cinquecentesca del vicentino Giovanni Speranza (Beata Vergine Addolorata tra i santi Rocco e Marco), una seicentesca di Francesco Frigimelica (Beata Vergine della Cintura tra Santi), l’Assunzione di Maria di Giovanni De Min, infine una di autore ignoto (S. Giuseppe con Bambino), due angeli adoranti e due bassorilievi di Marco Casagrande su San Leonardo.
Dopo la disfatta di Caporetto, il paese diventa fronte di guerra e la chiesa subisce gravi lesioni per i bombardamenti italiani dal Montello.
Conclusa la grande guerra, il parroco don Domenico Pancotto preme per la costruzione di un nuovo edificio sacro, mentre una parte della popolazione si dichiara favorevole al restauro del precedente. L’ingegner Giovanni Battista Schiratti quantifica i danni e contatta l’architetto Alberto Alpago Novello, che studia un progetto in stile romanico – barocco. Per tagliar conto alle polemiche, si affretta la distruzione delle rovine: demoliti i muri pericolanti con cariche di esplosivo, il 29 giugno 1922 è benedetta la prima pietra.
Rispetto all’antica chiesa, la nuova è radicalmente diversa per orientamento e pianta centrale, in modo da ottimizzare gli spazi disponibili; l’idea progettuale sembra ispirarsi alla vicina torre Caminese del XII secolo, di cui è conservato il rudere.
L’edificio, concepito a pianta dodecagonale con quattro cappelle radiali, si ispira ai modelli romanici, come testimoniano il rivestimento in cotto, il coronamento ad archetti e soprattutto il classico portale, ingentilito dall’arco a tutto sesto, sormontato da un’edicola cuspidata a cinque nicchie, dove campeggiano le statue di Sant’Antonio, San Leonardo, la Madonna con il Bambino, San Marco e San Rocco, realizzate nel 1962 dal Morselletto.
L’intento di richiamare le origini medievali del luogo cultuale si integra con il pregevole effetto visivo, determinato dal contrasto tra il paramento lapideo bianco del portale e dello zoccolo nel livello inferiore e la struttura di mattoni a vista nella parte superiore. Infine la grande volta della sala centrale in cemento armato è caratterizzata da una serie di nervature disposte a formare una fitta trama, riempita da tavelloni.
La struttura ideata da Alpago Novello e da Ottavio Cabiati è considerata la più riuscita tra i progetti presentati all’Opera di soccorso per la ricostruzione delle chiese distrutte: riesce infatti ad accordare in mirabile equilibrio il richiamo alla tradizione architettonica locale e la rielaborazione in chiave moderna. Inoltre l’originalità dell’impianto impone una stretta connessione fra costruzione e decorazione pittorica: su consiglio dei progettisti, infatti, a ornare la cupola nel 1924 è chiamato Guido Cadorin con l’aiuto Giovanni Zanzotto. L’anno seguente il pittore insieme ad Astolfo de Maria affresca il tamburo, provvedendo alla rappresentazione dei 12 Apostoli.
La chiesa viene ufficialmente benedetta la vigilia di Natale del 1925.
All’interno del nuovo edificio sacro le cinque finestre istoriate del presbiterio sono realizzate dal pittore milanese Sante Pizzol nel 1963. Oltre alla pala del Pordenone, si conservano numerose altre opere:lungo la navata destra la Madonnina del Piave, di incerta datazione, che riflette influssi della scuola fiorentina del XV secolo.
Sulla parete di fondo della chiesa spiccano due mirabili bronzi dello scultore locale Carlo Conte: la Deposizione, con la drammatica immagine del Figlio sulle ginocchia materne dell'Addolorata, e il Cristo morto, espressiva figura di Crocifisso. Nella cappella situata a destra del portale d’ingresso si possono ammirare pure otto sue formelle relative alle Storie di Sant'Antonio da Padova; quella di sinistra, invece, ospita un affresco trovato nella dimora dei Varlonga: la Madonna con Bambino, San Sebastiano e devoto risale alla prima metà del Cinquecento e per lo stile richiama i modi di Giovanni da Mel.
Oltre alla cappella del Santissimo, che ospita un recente olio del Sacro Cuore, le due collocate ai lati dell’abside sono abbellite dagli affreschi eseguiti da Giuseppe Modolo di Santa Lucia di Piave: da un lato sono raffigurate la Cacciata di Adamoed Eva e l’Annunciazione (1957), dall’altro le immagini di Pio X, Cristo e San Giuseppe (1960).
Nel piazzale, infine, presso il campanile in stile romanico si può ammirare la parte inferiore dell'antica torre dei Da Camino (XII secolo), gravemente danneggiata durante il conflitto, ora restaurata.
Gli apostoli del Cadorin. Ad affrescare l’ampia cupola della nuova chiesa, su indicazione del progettista Alberto Alpago Novello, alla fine del 1924 viene chiamato il pittore veneziano Guido Cadorin, preferito al veronese Carlo Donati, esperto in soggetti religiosi.
Undicesimo figlio di Vincenzo, scultore liberty, Guido dimostra precoci inclinazioni artistiche: fin dagli esordi simpatizza per i secessionisti (Klimt) e, da buon veneziano, è un habitué di Ca’ Pesaro, nota per mostre ed esposizioni. Sensibile al fascino dei mosaici (decorativismo), nella pittura predilige la semplificazione e la sintesi, fino a sublimare le immagini.
Giunto a Moriago dopo l’esperienza del Vittoriale, – nella villa del D’Annunzio ha affrescato la celebre stanza del lebbroso – esprime la sua arte attraverso il plasticismo sintetico, mirando all’astrazione lirica. Così nell’ampia pagina pittorica della volta di San Leonardo finirà per fondere il realismomagico delle figure con gli ornamenti dello sfondo.
L’idea ispiratrice è individuata nella Pentecoste, sviluppata in modo da integrare strutture architettoniche e immagini.
Per collegare gli spazi della volta alla costolatura nella calotta dapprima Giovanni Zanzotto provvede a creare una grande sorgente di luce, da cui s’irradiano maestose lingue di fuoco verso il basso.
In seguito l’artista e l’aiutante Astolfo De Maria si dedicano al tamburo: lo scenario è costituito da reti, che devono fare da sfondo decorativo alle figure degli Apostoli.
La realizzazione suscita ben presto un mare di polemiche: artista poco incline ai soggetti religiosi, nel riprodurre i dodici promette di ispirarsi alle teste sbalzate in un calice bizantino e ai mosaici di San Marco; ricevuta l’approvazione del Comitato creato per l’occasione, inizia i lavori, senza mantenere gli impegni presi: entrato in amicizia con alcuni personaggi di spicco del paese, soprattutto membri della giunta comunale, rimane colpito dai tratti caratteristici di alcuni abitanti al punto da raffigurare gli Apostoli con i loro volti, a cominciare dal sindaco del paese, cav. Giovanni Durante. Fatalità vuole che i soggetti prescelti non brillino per integrità morale e pratica religiosa, aspetti ignorati o trascurati dall’artista.
Normale che il parroco, appena si rende conto del mutamento di programma, assuma una posizione critica; intuibile che il sindaco, in qualità di presidente del Comitato, e gli altri membri, come parte in causa, difendano il pittore.
A questo punto don Domenico Pancotto coinvolge il Vicario Foraneo e la Commissione Diocesana, le proteste dei paesani crescono, ma la vicenda si chiude con il frettoloso ritocco d’un solo volto, quello del giudice conciliatore, responsabile d’un raggiro economico che ha fatto scalpore in paese.
Più aumentano le polemiche e più diventa celebre Moriago, definito dalla stampa il “paese degli Apostoli”.
Deve passare parecchio tempo prima che si plachino le ostinate polemiche che vedono protagonista l’incauto pittore.
Oggi, a distanza di novant’anni, ormai quasi nessuno è in grado di riconoscere nei tratti degli Apostoli la fisionomia dei modelli prescelti; resta invece la mirabile opera del Cadorin, che colpisce proprio per il realismo delle figure, l’umanità e l’espressività dei volti, l’efficacia dei gesti, la statuaria consistenza dei volumi: tali caratteristiche non solo conferiscono estrema originalità alla composizione artistica, ma finiscono per accrescere nei fedeli la speranza che ogni vile materia umana possa essere sublimata dall’energia prorompente dello Spirito Santo.
L’accurata opera di restauro, completata dal prof. Giuseppe Dinetto nel 2009, permette di ammirare in tutta la loro bellezza gli affreschi distribuiti sui 630 mq. della volta: gli Apostoli possono essere considerati senza dubbio il capolavoro tra i soggetti a tema religioso realizzati da Guido Cadorin.
La Pala del Pordenone. Nel periodo compreso tra il 1528 e il 1530 è ancora presente nel territorio per realizzare la pala che domina l’altar maggiore della chiesa di Moriago della Battaglia, intitolata a San Leonardo di Limoges. La bellezza della tavola in passato ha suscitato sentimenti unanimi e qualche incertezza: se tutti erano convinti di trovarsi di fronte a un vero capolavoro, alcuni erano propensi ad attribuirlo al genio di Tiziano per la maestria dei colori, altri invece all’arte del Pordenone per la straordinaria energia dei volumi.
Il parere definitivo sarà espresso dal Canova il 20 settembre 1822, 23 giorni prima della sua morte; dopo una visita a Collalto decide di sostare nel luogo cultuale moriaghese per ammirare la celebre opera. Esaminatala con attenzione, fuga ogni dubbio, definendola un miracolo del pennello di Antonio de’ Sacchis.
Nella composizione l’autore dimostra quanto siano meritati gli elogi che lo accostano a Michelangelo per il vigore e l’armonia delle forme, pur senza trascurare il sapiente uso del cromatismo caro agli artisti veneti.
L’immagine della Madonna in trono con il Bambino sovrasta i santi Antonio abate, il patrono Leonardo, Caterina d'Alessandria e Giovanni Battista, disposti a semicerchio in modo da creare una mirabile visione prospettica: l'occhio dell'osservatore, subito catturato dall'armonioso volto della Vergine, inclinato verso il figlio e posto in risalto dal drappo rosso che stacca dalle strutture architettoniche dello sfondo, scorre verso il basso, soffermandosi prima sul viso del fanciullo e poi sulla mano del battezzatore.
La disposizione piramidale del gruppo, richiamata da quella dei putti ai piedi del trono, permette la perfetta distribuzione dei volumi, unita alle raffinate gradazioni di colore.
Senza dubbio, dunque, la tavola è uno dei capolavori degni d’ammirazione nella diocesi cenedese; purtroppo, tra le diverse opere realizzate dall’autore, è una delle poche rimaste indenni, insieme alla Madonna fra Santi conservata nella chiesa della Visitazione della Beata Vergine a Susegana: gli affreschi della Cappella Vecchia sono infatti andati perduti nel corso della grande guerra.
Molto dinamica, per non dire frenetica, l’attività del secondo artista, che trascorre la giovinezza nell’Alta Marca; sappiamo che dopo il 1520 affresca la parete rivolta a meridione nella mirabile sala dei Battuti a Conegliano con scene significative del Vecchio e Nuovo Testamento, immortalando vari episodi della vita di Cristo.
f) La casa fungo
E' chiamata così, impropriamente, ma così E' armai connotata dai moriaghesi e così abbiamo deciso di chiamarla. Si tratta di un fabbricato avveniristico, in centro a Moriago, in lottizazione 'Zanin', cui si accede da una laterale di via Degli Arditi, a pochi metri dal centro del paese. Ad idearla era stato Dante Vendramini, originario di Moriago, ma vissuto per lo pi˘ in Francia, dove aveva avuto successo come ingegnere aerospaziale. E proprio con tecniche e materiali di tale derivazione aveva ideato un sistema di fabbricazione di edifici modulari, con uno scheletro di calcestruzzo armato e pannellature di materiali compositi. Una di queste case l'aveva voluta per sè, a Moriago, e anche se il destino non gli ha concesso di vederla finita, ha lasciato pur sempre un'impronta particolare e una sorta di 'monumento' alla sua genialità. Che piaccia oppure no, la 'casa fungo' rimane un'attrattiva di Moriago e vale la pena passare ad ammirarla (capita spesso che studenti di architettura vengano a vederla e a prendere informazioni), anche perchè il nuovo proprietario, Lorella Zanetton, nell'ultimarla, pur non riuscendo per oggettive difficoltà a terminare il lavoro di Dante Vendramini con i materiali di derivazione aeronautica, ha saputo accostare sapientemente materiali tradizionali ai materiali avveniristici, creando esternamente e internamente un ambiente molto gradevole ed elegante. Fatta questa breve presentazione vale la pena cliccare sul link per vedere qualche foto.
3) Moriago racconta...Tradizioni e vita di paese a) Monumento donna migrante
Lo sviluppo industriale nel 2° Dopoguerra, col conseguente progresso economico, ha determinato la scomparsa dell'emigrazione. A ricordo di quel drammatico fenomeno, che ha inciso profondamente sulla vita della collettività moriaghese fino agli anni '60, è stato inaugurato nel 1990 il primo monumento in Italia dedicato alla "donna emigrante", un'originale realizzazione in bronzo.
b) Mostra della patata
Con l'avvento della civiltà industriale anche molte vecchie tradizioni sono andate scomparendo, mentre sono venute sviluppandosi altre manifestazioni soprattutto per iniziativa della Pro Loco. Fra le altre nell'ambito della valorizzazione dei prodotti locali, va citata la Mostra della Patata, ai primi d'agosto, con assaggi e pranzi a base di patate, dalla torta alla pizza.
c) Mamai
Quella dei "Mamai" è certamente una delle tradizioni paesane più antiche. Tra il verde dei campi è possibile distinguere molte specie di piante e fiori non autoctone, arrivare qui grazie al Piave, che funge da veicolo impollinatore. Tra esse spicca, nelle Grave, per la forma curiosa e originale, la Stipa pennata o Lino delle Fate o Mamai, una graminacea con foglie setoliformi finemente scanalate. Il fusto tocca i 60 cm e la fioritura avviene nel periodo maggio - luglio mettendo in luce dei pennacchi piumosi ed argentei, lunghi anche 30 cm e attorcigliati alla base. Il pennacchio, bagnato nel latte di calce ed esposto al sole, diventa presto vellutato come la pelle del gatto, o meglio del mamao, termine dialettale col quale s'indicava qualsiasi tipo di pelliccia. I mamai hanno decorato da sempre le case di molti Moriaghesi che, per farli conoscere, hanno da alcuni anni ideato una vera e propria festa che si svolge in estate nell'Isola dei Morti.
d) La banda
Il corpo bandistico, da sempre particolarmente attivo, sorse nel lontano 1827. Complesso completamente autonomo, gestito dagli stessi componenti, esso fu formato, almeno fino agli anni '30 del nostro secolo, solo da persone di Moriago e, salvo una breve parentesi, moriaghesi furono pure tutti i maestri che si sono succeduti nei 160 anni della sua storia. L'archivio della banda comprende ancora spartiti manoscritti risalenti alla fine del secolo scorso e al primo '900.
e) I giochi senza quartiere
Nel recente passato, ogni anno, in estate, si svolgevano a Mosnigo i "Giochi senza quartiere". La Piazza Albertini, per l'occasione allestita di tribune, si trasformava per alcune sere in una pittoresca Plaza de Toros. I tifosi delle varie squadre, attrezzati di bandiere, striscioni e tam tam, non mancavano di sottolineare rumorosamente le prodezze dei beniamini e gli errori degli avversari. Le compagini di giovani, provenienti dai vari paesi limitrofi, dovevano dimostrare la loro bravura cimentandosi in giochi entusiasmanti, di fronte ad un folto pubblico, che attendeva da tempo impaziente. I giochi si rinnovavano di anno in anno: dal "tiro alla fune" nella quale si abbinavano la forza e l'intelligenza; al "minigolf con le uova" con la frittata sempre in agguato; dal "grappolo di mele" ai giochi del "fil rouge" giocati sopra la vasca d'acqua; dalla "mucca di cartapesta", con la pancia piena d'acqua da mungere a bicchierini, ai "vermi" che dovevano strisciare carponi su una tavola girevole dalla superficie ingrassata sempre col rischio di essere rovesciati in acqua. In breve tempo si susseguivano nelle gare i paesi della zona, tutti tesi ad aggiudicarsi, senza risparmio di colpi, il trofeo in palio e scrivere così il proprio nome nell'albo d'oro dei giochi.
I) il nome
Situato nella piana sud - orientale del Quartier del Piave, il paese presenta un toponimo dall'origine incerta; chi lo fa derivare dall'andronimo romano Maurilius con suffisso "acu", in riferimento alla penetrazione romana nei primi secoli dopo Cristo; chi da "muri" per via delle muraglie di difesa; chi da "moria" cioè campo di morte deducendolo dalla dist ruzione di Nosledo; infine, secondo la tradizione popolare, il nome sarebbe una corruzione dell'espressione "muore il lago" con richiamo alla zona paludosa al termine della quale sarebbe sorto l'abitato.
II) Origini e trasformazioni del comune
L'ipotesi d'insediamenti risalenti all'età del bronzo è stata confermata anche dai ritrovamenti di tombe nel territorio. Nel 1935 a Moriago furono rinvenute sette tombe romane con completo arredo funebre databile tra il II ed il III sec. d. C.; un'altra tomba ad incinerazione venne alla luce durante lo scavo per la costruzione del nuovo campanile. I centri abitati conservano la caratteristica struttura romana: un abitato raccolto entro un recinto, al quale fa da perimetro una strada carrabile.
Nel XIII secolo i vari signori, impotenti di fronte alle pressioni del Comune di Treviso che andava sempre più affermandosi nella Marca, rinunciarono ai diritti feudali di sovranità a favore del Comune, pur di ottenere la cittadinanza di Treviso e di poter quindi partecipare alla vita comunale.
Nel periodo delle invasioni barbariche, durante il Medioevo, la popolazione era situata in quattro zone considerate più sicure per via delle condizioni ambientali: a nord dell'attuale chiesa di Moriago, oltre il Rosper; al limite dei Palù; il recinto fortificato dello scomparso villaggio di Nosledo; vicino alla scarpata d'accesso alle Grave. Finite le invasioni, ci fu un ritorno ai nuclei del periodo romano ed una feudalizzazione del territorio. Nel basso Medioevo ci fu una vasta opera di bonifica grazie all'opera dei monaci dell'abbazia di Vidor.
III) San Leonardo
La parrocchia più antica (San Leonardo) è quella di Moriago, si intuisce dai simboli cristiani risalenti ai secoli XIII - XIV, incisi su alcuni massi di pietra rinvenuti nella distrutta chiesa e posti nelle pareti esterne di quella nuova a forma di poligono, che poggia sulle rovine dell'antica parrocchiale distrutta dalla guerra nel 1918, al suo interno si trova una tavola del Pordenone e i famosi apostoli di Guido Cadorin: per ammirarli cliccare sulla foto della chiesa.
IV) Moriago diventa Comune
Il Comune di Moriago, con la frazione di Mosnigo e la località Nosledo, fino al 1797 fu un'appendice del comune di Vidor. Da quell'anno al 1805 appartenne con Vidor al distretto di Treviso. Divenne comune nel 1807 con Mosnigo ma perse di nuovo l'autonomia tre anni dopo quando fu aggregato nuovamente alla municipalità di Vidor, cantone di Valdobbiadene, distretto di Ceneda. Ritornò autonomo nel 1819 e venne chiamato Moriago "della Battaglia" con decreto presidenziale del 1962 quale riconoscimento per la memorabile impresa del 27 ottobre 1918 che pose le premesse per la vittoria di Vittorio Veneto. Fu all'alba di quel giorno che i primi reparti d'assalto del XXIII Corpo d'Armata del generale Vaccari, passato il Piave in piena e posto il Comando a Molino Menente, sorpresero e travolsero il nemico. Il luogo ove avvenne il cruento impatto, si chiamò "Isola dei Morti".
V) Tragedie e Calamità
Nei secoli scorsi anche Moriago fu colpito da calamità. La peste del 1629 - 1931, descritta dal Manzoni nei "Promessi Sposi", colpì anche il Veneto. Moriago fu decimata: i cadaveri furono sepolti negli orti e presso una chiesuola campestre dedicata a S. Marco, scomparsa nei secoli. Fino al 1880 esisteva in quel luogo un capitello che recava dipinte figure di appestati. A quel tragico avvenimento si ricollega anche un altro capitello a volta, sostenuto da due piccole colonne, eretto prima del 1631 sulla parete nord di casa Zancanaro. Vi era appeso un quadro della Vergine che i fedeli veneravano con singolare pietà perchè, la tradizione, ricordava che la peste non aveva mietuto vittime nel territorio oltre il capitello. Il colera del 1885 era testimoniato da un capitello in Via Roma nella cui nicchia interna era stata posta una statua in legno della Vergine dei Sette Dolori. Fatto erigere in quell'anno da certo Antonio Adami - Fiorin, il capitello fu demolito nel 1961 a causa dell'allargamento della strada. In suo luogo si vede oggi un'edicoletta in marmo con una statua lignea dell'Addolorata.
VI) L'emigrazione
Il Grande Esodo si verificò soprattutto negli anni Ottanta - Novanta dell'800. Le prime partenze si ebbero nel 1888 e poi nel 1896 quando cui molti partirono verso l'America del Sud per andare a dissodare terre vergini e conquistarsi una piccola proprietà. Il Brasile pagava il viaggio agli emigranti e concedeva loro un appezzamento di terra in proprietà, purché disboscassero la foresta e la riducessero a terreno agricolo. Gli emigranti veneti si stabilirono per lo più negli stati del Rio Grande do Sul ove diedero vita ad una serie di piccole colonie: Nuova Bassano, Nuova Treviso... Le cause vengono fatte risalire ai cattivi raccolti e alla grave crisi agraria che colpì l'Italia negli anni Ottanta dell'800, che fu particolarmente violenta per via dell'arretratezza dell'agricoltura, delle trasformazioni capitalistiche in atto nelle campagne e dell'inadeguatezza delle misure prese per fronteggiarla (protezionismo).
VII) L'emigrazione temporanea
Per certi contadini di montagna, o di zone depresse (come Moriago), era quasi una prassi. Avveniva soprattutto in primavera ed in estate e riguardava i giovani maschi in età lavorativa che partivano per la Francia, la Svizzera ed il Belgio. Ritornavano durante l'inverno portando a casa i soldi che permettevano alla famiglia di sopravvivere. Se a spostarsi era l'intera famiglia la scelta di permanenza all'estero diventava una necessità.
Il fenomeno si blocca con la 1^ Guerra Mondiale, per continuare nel periodo tra le due guerre, contadini e mezzadri ripresero la via dell'emigrazione verso l'Europa, con la valigia di cartone e, talvolta, qualche indirizzo dato da chi era già stato all'estero ed agevolava la partenza dei compaesani.
Oltre all'emigrazione volta a trovare lavoro si unì il fenomeno del fuoriscitismo, persone antifasciste che per non rischiare la prigione o la vita stessa erano costrette a riparare all'estero.Con il fascismo s'ingrossarono le grandi proprietà terriere e i più poveri diventavano i mezzadri ed i fittavoli disposti a trasferirsi anche lontano per poter vivere (Agro Pontino e Sardegna).Dopo la 2^ Guerra Mondiale e fino agli anni Sessanta l'emigrazione continuò spopolando il Quartier del Piave.
VIII) La tragedia del cinema
Nel 1928, il 26 febbraio, a Moriago accadde un fatto doloroso degno di un cenno visto che la eco si diffuse ampiamente anche nella intera stampa nazionale: l'incendio del cinema e la conseguente perdita della vita di 35 vittime quasi tutte giovani. In quel giorno, la famiglia Braga di Oderzo dava spettacolo cinematografico proprio in uno stanzone al primo piano del palazzo Battaglia, in pieno centro del paese. Le finestre che davano verso la strada erano protette da forti inferriate mentre le finestre poste sul cortile centrale erano libere da ostacoli. » da ricordare che Fausto Braga, coadiuvato dal figlio Pirro, non aveva ricevuto necessarie ed obbligatorie autorizzazione e la sala non era a norma di sicurezza per lo svolgimento della serata. Fu così che in quella sera e in quel posto si ritrovarono oltre 150 persone. verso le 21.30, appena iniziata la seconda parte del programma che comprendeva la proiezione di un filmato, la pellicola si ruppe e scoppiò un incendio. La folla che era agitata si accalcò vero le finestre, chiuse, e verso la porta che pare fu chiusa per evitare l'accesso ad altre persone. fu così che alcune persone si misero in fuga, chi gettandosi dalle finestre libere, chi dall'esterno (Ulisse Sernaglia) riuscì ad aprire la porta e a mettere in scampo numerose persone ma il parapetto della scala cedette e un gran numero di persone era aggrovigliato in una catasta, morendo soffocate dal fumo prodotto dalla pellicola e asfissiati. Altre persone, circa una quarantina, furono salvate da Guglielmo Testa che arrampicato su una scala, divelse una inferriata delle finestre. I funerali riuscirono imponenti dato che la celebrazione funebre svoltasi a Moriago fu celebrata nella piazza antistante la chiesa per riuscire a contenere le oltre diecimila persone convenute alla mesta cerimonia. Il rito funebre, presieduto dal Vescovo diocesano Mons. Eugenio Beccegato, fu toccante. Queste le parole del presule: "Non son venuto qui per parlare, ma per piangere per voi! Poveri figli di Sernaglia, di Moriago, di Fontigo e di Mosnigo; poveri figli miei colpiti da una sciagura che non si sa esprimere a parole. Sono qui a piangere per i figli vostri stroncati da una morte terrificante, tragica, indescrivibile. Questo suolo che ha visto cadere tante salme di giovani soldati durante la guerra, onorate in quel monumento che si chiama l'Isola dei Morti, è stato teatro di un disastro senza precedenti. Ma perchè, o Signore, avete permesso questo? […] Quando il dolore ci opprime così fortemente, anche il povero Vescovo si chiude, in uno strazio intensissimo. Foste morti almeno nella vostra casa, nel vostro letto, col soccorso dei vostri cari, abbracciati e confortati dalle carezze del babbo e della mamma, del fratello e della sorella. Siete usciti una domenica sera dalle vostre case, magari senza darvi un saluto per un lecito divertimento, cosí raro in questi figli del Piave. non ritornaste pi˘! Ossia, alcuni ritornarono, ma morti. I parenti si sono portati via i cadaveri: peso dolce, ma nel tempo stesso opprimente, soffocante. I fratelli, nello spasimo dell'istinto di conservazione han soffocato i fratelli. Mio Dio, quale spettacolo, quale strazio! Ma non siete senza onore!"
IX) Gli Albertini
Gli Albertini non hanno mai vissuto a Moriago, ma sono noti perchè possedevano numerose terre a Moriago e Mosnigo. Essi provenivano dal Mulinetto della Croda (Refrontolo) ed avevano proprietà anche in quel di Vidor, presso l'abazia dove pure hanno abitato; In Moriago lavoravano circa 200 famiglie mezzadrili nei fondi degli Albertini. L'ultima contessa Albertini è rimasta nella memoria della nostra gente: la signora Alfonsa Miniscalchi Erizzo, vedova Albertini, che non poteva avere figli, ogni sabato ed ogni domenica apriva la sua abitazione ai bambini del paese che potevano giocare tranquillamente nel suo grande e ben tenuto giardino. La contessa E' inoltre ricordata perchè prima di morire ha lasciato delle terre ai suoi mezzadri di Mosnigo, senza dimenticarsi del comune al quale regalò 1.500 mq per fare una piazza a Mosnigo, che per ordine del Podestà Giovanni Durante nel 1923 prese il nome di 'Piazza Albertini'.
2) La chiesa
Nel territorio della Sinistra Piave è molto antica la devozione a San Leonardo,nobile franco, che vive nel VI secolo come eremita in una capanna nei pressi di Limoges, fedele al motto: “Servire Dio negli uomini e gli uomini in Dio”.
Sembra già diffusa nell’XI secolo la fama dell’anacoreta, invocato in modo particolare da miseri, schiavi e prigionieri, perché spezza le catene della servitù e protegge gli umili dalle angherie dei potenti.
Il primo edificio sacro di Moriago dipende dalla chiesa matrice di Sernaglia, di cui si ha notizia fin dal 762, in epoca longobarda: nella vicina Pieve di Santa Maria Assunta, infatti, non solo si somministrano il battesimo e gli altri sacramenti, ma si stabiliscono le regole fondamentali per le comunità oranti.
Anche l’abbazia di Santa Bona, eretta nei primi anni del XII secolo sulle rive del Piave a Vidor, esercita un controllo sulla cappella, citata per la prima volta nel 1224 in un documento che attesta una donazione del conte Gabriele da Camino; è certo che i monaci pomposiani svolgono un ruolo guida decisivo, oltre che in ambito religioso, nella bonifica delle terre comuni, in particolare delle distese dei Palù.
Già prima del Trecento l’antica devozione diventa ufficiale: come testimonia un documento del 1336, infatti, il luogo cultuale è intitolato a San Leonardo; è il periodo in cui fioriscono numerose confraternite laiche, che auspicano un profondo rinnovamento spirituale.
Il modesto edificio primitivo in stile romanico subisce una radicale ristrutturazione nel 1458, sub regimine presbiteri Jacobi de Tremula; una lapide murata presso l’ingresso laterale di sinistra ricorda l’evento, corredata dai simboli dei santi venerati dalla comunità: i ceppi di San Leonardo, l’aquila di Santa Caterina d’Alessandria, il motto di San Bernardo (Ihs), il braccio di San Giovanni Battista e i gioghi di Sant’Antonio abate. Un’altra riporta i nomi dei costruttori, i mastri Giovanni e Antonio.
La chiesa, ampliata e rinnovata, appare ancora spoglia agli occhi del vescovo cenedese Nicolò Trevisan, che nella visita pastorale del 1475 auspica urgenti interventi. L’opera di completamento prosegue per anni e raggiunge l’apice nel 1528-30, quando Antonio de’ Sacchis, noto come il Pordenone, realizza la celebre pala dell’altar maggiore.
Con l’avvento della Controriforma la regola è elevata a parrocchia, forse nel 1569, pur conservando la sua originaria collocazione: dipendente dalla pieve di Sernaglia, soggetta al giuspatronato dell’abbazia di Santa Bona di Vidor.
Dopo alcuni interventi di conservazione, è ufficialmente consacrata nel 1746 dal vescovo Lorenzo Da Ponte.
Nella seconda metà dell’Ottocento la chiesa, ampliata e restaurata, presenta pianta basilicale, con tre altari (San Leonardo, Madonna Assunta e Madonna della Cintura). All’interno si trovano una tela cinquecentesca del vicentino Giovanni Speranza (Beata Vergine Addolorata tra i santi Rocco e Marco), una seicentesca di Francesco Frigimelica (Beata Vergine della Cintura tra Santi), l’Assunzione di Maria di Giovanni De Min, infine una di autore ignoto (S. Giuseppe con Bambino), due angeli adoranti e due bassorilievi di Marco Casagrande su San Leonardo.
Dopo la disfatta di Caporetto, il paese diventa fronte di guerra e la chiesa subisce gravi lesioni per i bombardamenti italiani dal Montello.
Conclusa la grande guerra, il parroco don Domenico Pancotto preme per la costruzione di un nuovo edificio sacro, mentre una parte della popolazione si dichiara favorevole al restauro del precedente. L’ingegner Giovanni Battista Schiratti quantifica i danni e contatta l’architetto Alberto Alpago Novello, che studia un progetto in stile romanico – barocco. Per tagliar conto alle polemiche, si affretta la distruzione delle rovine: demoliti i muri pericolanti con cariche di esplosivo, il 29 giugno 1922 è benedetta la prima pietra.
Rispetto all’antica chiesa, la nuova è radicalmente diversa per orientamento e pianta centrale, in modo da ottimizzare gli spazi disponibili; l’idea progettuale sembra ispirarsi alla vicina torre Caminese del XII secolo, di cui è conservato il rudere.
L’edificio, concepito a pianta dodecagonale con quattro cappelle radiali, si ispira ai modelli romanici, come testimoniano il rivestimento in cotto, il coronamento ad archetti e soprattutto il classico portale, ingentilito dall’arco a tutto sesto, sormontato da un’edicola cuspidata a cinque nicchie, dove campeggiano le statue di Sant’Antonio, San Leonardo, la Madonna con il Bambino, San Marco e San Rocco, realizzate nel 1962 dal Morselletto.
L’intento di richiamare le origini medievali del luogo cultuale si integra con il pregevole effetto visivo, determinato dal contrasto tra il paramento lapideo bianco del portale e dello zoccolo nel livello inferiore e la struttura di mattoni a vista nella parte superiore. Infine la grande volta della sala centrale in cemento armato è caratterizzata da una serie di nervature disposte a formare una fitta trama, riempita da tavelloni.
La struttura ideata da Alpago Novello e da Ottavio Cabiati è considerata la più riuscita tra i progetti presentati all’Opera di soccorso per la ricostruzione delle chiese distrutte: riesce infatti ad accordare in mirabile equilibrio il richiamo alla tradizione architettonica locale e la rielaborazione in chiave moderna. Inoltre l’originalità dell’impianto impone una stretta connessione fra costruzione e decorazione pittorica: su consiglio dei progettisti, infatti, a ornare la cupola nel 1924 è chiamato Guido Cadorin con l’aiuto Giovanni Zanzotto. L’anno seguente il pittore insieme ad Astolfo de Maria affresca il tamburo, provvedendo alla rappresentazione dei 12 Apostoli.
La chiesa viene ufficialmente benedetta la vigilia di Natale del 1925.
All’interno del nuovo edificio sacro le cinque finestre istoriate del presbiterio sono realizzate dal pittore milanese Sante Pizzol nel 1963. Oltre alla pala del Pordenone, si conservano numerose altre opere:lungo la navata destra la Madonnina del Piave, di incerta datazione, che riflette influssi della scuola fiorentina del XV secolo.
Sulla parete di fondo della chiesa spiccano due mirabili bronzi dello scultore locale Carlo Conte: la Deposizione, con la drammatica immagine del Figlio sulle ginocchia materne dell'Addolorata, e il Cristo morto, espressiva figura di Crocifisso. Nella cappella situata a destra del portale d’ingresso si possono ammirare pure otto sue formelle relative alle Storie di Sant'Antonio da Padova; quella di sinistra, invece, ospita un affresco trovato nella dimora dei Varlonga: la Madonna con Bambino, San Sebastiano e devoto risale alla prima metà del Cinquecento e per lo stile richiama i modi di Giovanni da Mel.
Oltre alla cappella del Santissimo, che ospita un recente olio del Sacro Cuore, le due collocate ai lati dell’abside sono abbellite dagli affreschi eseguiti da Giuseppe Modolo di Santa Lucia di Piave: da un lato sono raffigurate la Cacciata di Adamoed Eva e l’Annunciazione (1957), dall’altro le immagini di Pio X, Cristo e San Giuseppe (1960).
Nel piazzale, infine, presso il campanile in stile romanico si può ammirare la parte inferiore dell'antica torre dei Da Camino (XII secolo), gravemente danneggiata durante il conflitto, ora restaurata.
Gli apostoli del Cadorin. Ad affrescare l’ampia cupola della nuova chiesa, su indicazione del progettista Alberto Alpago Novello, alla fine del 1924 viene chiamato il pittore veneziano Guido Cadorin, preferito al veronese Carlo Donati, esperto in soggetti religiosi.
Undicesimo figlio di Vincenzo, scultore liberty, Guido dimostra precoci inclinazioni artistiche: fin dagli esordi simpatizza per i secessionisti (Klimt) e, da buon veneziano, è un habitué di Ca’ Pesaro, nota per mostre ed esposizioni. Sensibile al fascino dei mosaici (decorativismo), nella pittura predilige la semplificazione e la sintesi, fino a sublimare le immagini.
Giunto a Moriago dopo l’esperienza del Vittoriale, – nella villa del D’Annunzio ha affrescato la celebre stanza del lebbroso – esprime la sua arte attraverso il plasticismo sintetico, mirando all’astrazione lirica. Così nell’ampia pagina pittorica della volta di San Leonardo finirà per fondere il realismomagico delle figure con gli ornamenti dello sfondo.
L’idea ispiratrice è individuata nella Pentecoste, sviluppata in modo da integrare strutture architettoniche e immagini.
Per collegare gli spazi della volta alla costolatura nella calotta dapprima Giovanni Zanzotto provvede a creare una grande sorgente di luce, da cui s’irradiano maestose lingue di fuoco verso il basso.
In seguito l’artista e l’aiutante Astolfo De Maria si dedicano al tamburo: lo scenario è costituito da reti, che devono fare da sfondo decorativo alle figure degli Apostoli.
La realizzazione suscita ben presto un mare di polemiche: artista poco incline ai soggetti religiosi, nel riprodurre i dodici promette di ispirarsi alle teste sbalzate in un calice bizantino e ai mosaici di San Marco; ricevuta l’approvazione del Comitato creato per l’occasione, inizia i lavori, senza mantenere gli impegni presi: entrato in amicizia con alcuni personaggi di spicco del paese, soprattutto membri della giunta comunale, rimane colpito dai tratti caratteristici di alcuni abitanti al punto da raffigurare gli Apostoli con i loro volti, a cominciare dal sindaco del paese, cav. Giovanni Durante. Fatalità vuole che i soggetti prescelti non brillino per integrità morale e pratica religiosa, aspetti ignorati o trascurati dall’artista.
Normale che il parroco, appena si rende conto del mutamento di programma, assuma una posizione critica; intuibile che il sindaco, in qualità di presidente del Comitato, e gli altri membri, come parte in causa, difendano il pittore.
A questo punto don Domenico Pancotto coinvolge il Vicario Foraneo e la Commissione Diocesana, le proteste dei paesani crescono, ma la vicenda si chiude con il frettoloso ritocco d’un solo volto, quello del giudice conciliatore, responsabile d’un raggiro economico che ha fatto scalpore in paese.
Più aumentano le polemiche e più diventa celebre Moriago, definito dalla stampa il “paese degli Apostoli”.
Deve passare parecchio tempo prima che si plachino le ostinate polemiche che vedono protagonista l’incauto pittore.
Oggi, a distanza di novant’anni, ormai quasi nessuno è in grado di riconoscere nei tratti degli Apostoli la fisionomia dei modelli prescelti; resta invece la mirabile opera del Cadorin, che colpisce proprio per il realismo delle figure, l’umanità e l’espressività dei volti, l’efficacia dei gesti, la statuaria consistenza dei volumi: tali caratteristiche non solo conferiscono estrema originalità alla composizione artistica, ma finiscono per accrescere nei fedeli la speranza che ogni vile materia umana possa essere sublimata dall’energia prorompente dello Spirito Santo.
L’accurata opera di restauro, completata dal prof. Giuseppe Dinetto nel 2009, permette di ammirare in tutta la loro bellezza gli affreschi distribuiti sui 630 mq. della volta: gli Apostoli possono essere considerati senza dubbio il capolavoro tra i soggetti a tema religioso realizzati da Guido Cadorin.
La Pala del Pordenone. Nel periodo compreso tra il 1528 e il 1530 è ancora presente nel territorio per realizzare la pala che domina l’altar maggiore della chiesa di Moriago della Battaglia, intitolata a San Leonardo di Limoges. La bellezza della tavola in passato ha suscitato sentimenti unanimi e qualche incertezza: se tutti erano convinti di trovarsi di fronte a un vero capolavoro, alcuni erano propensi ad attribuirlo al genio di Tiziano per la maestria dei colori, altri invece all’arte del Pordenone per la straordinaria energia dei volumi.
Il parere definitivo sarà espresso dal Canova il 20 settembre 1822, 23 giorni prima della sua morte; dopo una visita a Collalto decide di sostare nel luogo cultuale moriaghese per ammirare la celebre opera. Esaminatala con attenzione, fuga ogni dubbio, definendola un miracolo del pennello di Antonio de’ Sacchis.
Nella composizione l’autore dimostra quanto siano meritati gli elogi che lo accostano a Michelangelo per il vigore e l’armonia delle forme, pur senza trascurare il sapiente uso del cromatismo caro agli artisti veneti.
L’immagine della Madonna in trono con il Bambino sovrasta i santi Antonio abate, il patrono Leonardo, Caterina d'Alessandria e Giovanni Battista, disposti a semicerchio in modo da creare una mirabile visione prospettica: l'occhio dell'osservatore, subito catturato dall'armonioso volto della Vergine, inclinato verso il figlio e posto in risalto dal drappo rosso che stacca dalle strutture architettoniche dello sfondo, scorre verso il basso, soffermandosi prima sul viso del fanciullo e poi sulla mano del battezzatore.
La disposizione piramidale del gruppo, richiamata da quella dei putti ai piedi del trono, permette la perfetta distribuzione dei volumi, unita alle raffinate gradazioni di colore.
Senza dubbio, dunque, la tavola è uno dei capolavori degni d’ammirazione nella diocesi cenedese; purtroppo, tra le diverse opere realizzate dall’autore, è una delle poche rimaste indenni, insieme alla Madonna fra Santi conservata nella chiesa della Visitazione della Beata Vergine a Susegana: gli affreschi della Cappella Vecchia sono infatti andati perduti nel corso della grande guerra.
Molto dinamica, per non dire frenetica, l’attività del secondo artista, che trascorre la giovinezza nell’Alta Marca; sappiamo che dopo il 1520 affresca la parete rivolta a meridione nella mirabile sala dei Battuti a Conegliano con scene significative del Vecchio e Nuovo Testamento, immortalando vari episodi della vita di Cristo.
f) La casa fungo
E' chiamata così, impropriamente, ma così E' armai connotata dai moriaghesi e così abbiamo deciso di chiamarla. Si tratta di un fabbricato avveniristico, in centro a Moriago, in lottizazione 'Zanin', cui si accede da una laterale di via Degli Arditi, a pochi metri dal centro del paese. Ad idearla era stato Dante Vendramini, originario di Moriago, ma vissuto per lo pi˘ in Francia, dove aveva avuto successo come ingegnere aerospaziale. E proprio con tecniche e materiali di tale derivazione aveva ideato un sistema di fabbricazione di edifici modulari, con uno scheletro di calcestruzzo armato e pannellature di materiali compositi. Una di queste case l'aveva voluta per sè, a Moriago, e anche se il destino non gli ha concesso di vederla finita, ha lasciato pur sempre un'impronta particolare e una sorta di 'monumento' alla sua genialità. Che piaccia oppure no, la 'casa fungo' rimane un'attrattiva di Moriago e vale la pena passare ad ammirarla (capita spesso che studenti di architettura vengano a vederla e a prendere informazioni), anche perchè il nuovo proprietario, Lorella Zanetton, nell'ultimarla, pur non riuscendo per oggettive difficoltà a terminare il lavoro di Dante Vendramini con i materiali di derivazione aeronautica, ha saputo accostare sapientemente materiali tradizionali ai materiali avveniristici, creando esternamente e internamente un ambiente molto gradevole ed elegante. Fatta questa breve presentazione vale la pena cliccare sul link per vedere qualche foto.
3) Moriago racconta...Tradizioni e vita di paese a) Monumento donna migrante
Lo sviluppo industriale nel 2° Dopoguerra, col conseguente progresso economico, ha determinato la scomparsa dell'emigrazione. A ricordo di quel drammatico fenomeno, che ha inciso profondamente sulla vita della collettività moriaghese fino agli anni '60, è stato inaugurato nel 1990 il primo monumento in Italia dedicato alla "donna emigrante", un'originale realizzazione in bronzo.
b) Mostra della patata
Con l'avvento della civiltà industriale anche molte vecchie tradizioni sono andate scomparendo, mentre sono venute sviluppandosi altre manifestazioni soprattutto per iniziativa della Pro Loco. Fra le altre nell'ambito della valorizzazione dei prodotti locali, va citata la Mostra della Patata, ai primi d'agosto, con assaggi e pranzi a base di patate, dalla torta alla pizza.
c) Mamai
Quella dei "Mamai" è certamente una delle tradizioni paesane più antiche. Tra il verde dei campi è possibile distinguere molte specie di piante e fiori non autoctone, arrivare qui grazie al Piave, che funge da veicolo impollinatore. Tra esse spicca, nelle Grave, per la forma curiosa e originale, la Stipa pennata o Lino delle Fate o Mamai, una graminacea con foglie setoliformi finemente scanalate. Il fusto tocca i 60 cm e la fioritura avviene nel periodo maggio - luglio mettendo in luce dei pennacchi piumosi ed argentei, lunghi anche 30 cm e attorcigliati alla base. Il pennacchio, bagnato nel latte di calce ed esposto al sole, diventa presto vellutato come la pelle del gatto, o meglio del mamao, termine dialettale col quale s'indicava qualsiasi tipo di pelliccia. I mamai hanno decorato da sempre le case di molti Moriaghesi che, per farli conoscere, hanno da alcuni anni ideato una vera e propria festa che si svolge in estate nell'Isola dei Morti.
d) La banda
Il corpo bandistico, da sempre particolarmente attivo, sorse nel lontano 1827. Complesso completamente autonomo, gestito dagli stessi componenti, esso fu formato, almeno fino agli anni '30 del nostro secolo, solo da persone di Moriago e, salvo una breve parentesi, moriaghesi furono pure tutti i maestri che si sono succeduti nei 160 anni della sua storia. L'archivio della banda comprende ancora spartiti manoscritti risalenti alla fine del secolo scorso e al primo '900.
e) I giochi senza quartiere
Nel recente passato, ogni anno, in estate, si svolgevano a Mosnigo i "Giochi senza quartiere". La Piazza Albertini, per l'occasione allestita di tribune, si trasformava per alcune sere in una pittoresca Plaza de Toros. I tifosi delle varie squadre, attrezzati di bandiere, striscioni e tam tam, non mancavano di sottolineare rumorosamente le prodezze dei beniamini e gli errori degli avversari. Le compagini di giovani, provenienti dai vari paesi limitrofi, dovevano dimostrare la loro bravura cimentandosi in giochi entusiasmanti, di fronte ad un folto pubblico, che attendeva da tempo impaziente. I giochi si rinnovavano di anno in anno: dal "tiro alla fune" nella quale si abbinavano la forza e l'intelligenza; al "minigolf con le uova" con la frittata sempre in agguato; dal "grappolo di mele" ai giochi del "fil rouge" giocati sopra la vasca d'acqua; dalla "mucca di cartapesta", con la pancia piena d'acqua da mungere a bicchierini, ai "vermi" che dovevano strisciare carponi su una tavola girevole dalla superficie ingrassata sempre col rischio di essere rovesciati in acqua. In breve tempo si susseguivano nelle gare i paesi della zona, tutti tesi ad aggiudicarsi, senza risparmio di colpi, il trofeo in palio e scrivere così il proprio nome nell'albo d'oro dei giochi.
II) La Porta della Vittoria
Il Luogo della Memoria - Presso l'Isola dei Morti, così chiamata dopo la guerra, (antecedentemente era un appezzamento di terreno presso il greto del fiume Piave che diviso in 16 lotti e spartito ad altrettante famiglie poteva dare compenso di un po' di legna e fieno. Dopo la guerra andò in proprietà al Magistrato delle acque e poi alla Forestale, fino ad oggi), definita "Porta della Vittoria" poiché fu da qui che l'esercito si portò a Vittorio Veneto, si scorge l'amenità del paesaggio che richiama alla mente l'immagine di un vasto cimitero dove ogni ciuffo d'erba, ogni albero, ogni essere che popola questo lembo di terra, un tempo bagnato dal sangue umano, contribuisce a dare vita, a tener vivo un terreno inabitabile.
III) I racconti di Giuseppe Mazzotti
Giuseppe Mazzotti nel suo "Treviso, Piave, Grappa, Montello" edito nel 1938 scriveva: il fiume disteso sotto la collina forma piatte isole di ghiaia, su cui crescono erbe simili ad alghe. Sulla più grande, di fronte al Montello, passarono gli Arditi del XXII Reparto d'assalto per attestarsi a Moriago all'alba del 27 ottobre 1918. La strada che fecero venendo dal Piave porta adesso il nome di "Via degli Arditi" e una piramide di pietre grigie in mezzo all'Isola ne ricorda i morti. Questa è appunto l'Isola dei Morti. Sul culmine della piramide vi è una croce fatta con paletti di reticolato, e tutto intorno, lungo un deserto argine, sulla ghiaia, le erbe, i cipresseti, le acacie sono morsi e piegati dal vento.
IV) La guerra
Moriago è anche il primo paese italiano liberato dopo la guerra. Presso il Mulino Manente si scorge una lapide con tale epigrafe: "Ali alle ali le crisi non si risolvono che al di là del Piave. Gen. G. Vaccari. Qui il 28 ottobre 1918 il Generale Vaccari pose il suo primo comando sulla sponda liberata". Soprattutto nelle tre giornate del 27, 28 e 29 ottobre 1918 si svolsero i fatti più cruenti.
"La lotta che si svolse nel territorio del Comune (di Moriago) fu il fulcro dell'azione decisiva che condusse a Vittorio Veneto e non a torto potrebbe chiamarsi la Porta della Vittoria" (da Guida di Treviso e Provincia, 1926-1927).
V) La letteratura
Levi Spadetto nelle sue Poesie edito nel 1976 in maniera rimembrativa così ci esprime la solitudine del cippo: ìI combattenti ritti sull'attenti / gravi e solenni fissano l'altare, / dove del Piave echeggiano gli accenti / al suono di tamburi e di fanfare. / Vanno i pensieri ai giorni tenebrosi, / quando il cannone in mezzo alla fornace / cupo mieteva padri, figli e sposi / su questa terra che viveva in pace. / O benedetto suolo irrigato / da tanto sangue sparso umilmente, / se non verrà da te dimenticato. / Il sacrificio fatto atrocemente / dall'odio tra fratelli scatenato / allora morti non saran per niente.î Negli anni í60 fu inaugurata anche una stele dedicata a E. A. Mario, autore dei versi della canzone "La leggenda del Piave". Il 16 giugno 1991, in occasione del XX∞ di fondazione della Sezione Artiglieri di Moriago, fu inaugurato il monumento "Vita per la Pace" opera dello Scultore Marbal (Mario Balliana) di Fontigo. In questi ultimi anni si è molto parlato di questo luogo per i numerosi atti vandalici compiuti e in positivo della valorizzazione compiuta da Andrea Zanzotto e Marco Paolini che hanno elogiato la cura del greto e ricordato i numerosi caduti.
VII) Il Santuario della Madonna del Piave
Negli anni '50 il parroco di Moriago, Don Pietro Ceccato (1908- 1996), preventivò l'idea di costruire un Santuario dedicato alla Madonna proprio nei pressi di quel cippo eretto trent'anni prima. L'idea fu presentata anche al Vescovo diocesano di allora, Mons. Giuseppe Carraro, che ne approvò i lavori. La prima pietra del Santuario fu posta il 16 luglio 1961. I lavori continuarono per alcuni anni fino al 1965 quando il 29 giugno, solennità dei Santi Pietro e Paolo l'allora Vescovo di Vittorio Veneto, Mons. Albino Luciani che poi diverrà papa col nome di Giovanni Paolo I, consacrò con rito solenne l'edificio fra il gaudio dei moriaghesi e del Parroco Don Pietro Ceccato. Il Santuario in seguito fu abbellito da molta oggettistica sacra e arredi. Nel 1969 furono intagliati i portali di legno dallo scultore Mussner su disegno del moriaghese Enrico Tonello, posto il bassorilievo dello scultore Giardina su disegno di Bepi Modolo da Santa Lucia di Piave, donati due lampadari artistici in ferro battuto, uno rappresentate le tre caravelle, l'altro un elmetto sforacchiato. Pure un leggio in ferro ricavato da residui di filo spinato, un crocifisso ricavato da una bomba a mano e molte altre tra cui l'artistica acquasantiera, unica nel suo genere, che raffigura un soldato con l'elmetto in mano. » proprie quest'ultimo a fungere da acquasantiera. In una vetrina sono raccolti anche alcuni cimeli storici. Una campana del quattrocento fu donata dall'associazione "Ragazzi del '99" nel 1968.
II) La Porta della Vittoria
Il Luogo della Memoria - Presso l'Isola dei Morti, così chiamata dopo la guerra, (antecedentemente era un appezzamento di terreno presso il greto del fiume Piave che diviso in 16 lotti e spartito ad altrettante famiglie poteva dare compenso di un po' di legna e fieno. Dopo la guerra andò in proprietà al Magistrato delle acque e poi alla Forestale, fino ad oggi), definita "Porta della Vittoria" poiché fu da qui che l'esercito si portò a Vittorio Veneto, si scorge l'amenità del paesaggio che richiama alla mente l'immagine di un vasto cimitero dove ogni ciuffo d'erba, ogni albero, ogni essere che popola questo lembo di terra, un tempo bagnato dal sangue umano, contribuisce a dare vita, a tener vivo un terreno inabitabile.
III) I racconti di Giuseppe Mazzotti
Giuseppe Mazzotti nel suo "Treviso, Piave, Grappa, Montello" edito nel 1938 scriveva: il fiume disteso sotto la collina forma piatte isole di ghiaia, su cui crescono erbe simili ad alghe. Sulla più grande, di fronte al Montello, passarono gli Arditi del XXII Reparto d'assalto per attestarsi a Moriago all'alba del 27 ottobre 1918. La strada che fecero venendo dal Piave porta adesso il nome di "Via degli Arditi" e una piramide di pietre grigie in mezzo all'Isola ne ricorda i morti. Questa è appunto l'Isola dei Morti. Sul culmine della piramide vi è una croce fatta con paletti di reticolato, e tutto intorno, lungo un deserto argine, sulla ghiaia, le erbe, i cipresseti, le acacie sono morsi e piegati dal vento.
IV) La guerra
Moriago è anche il primo paese italiano liberato dopo la guerra. Presso il Mulino Manente si scorge una lapide con tale epigrafe: "Ali alle ali le crisi non si risolvono che al di là del Piave. Gen. G. Vaccari. Qui il 28 ottobre 1918 il Generale Vaccari pose il suo primo comando sulla sponda liberata". Soprattutto nelle tre giornate del 27, 28 e 29 ottobre 1918 si svolsero i fatti più cruenti.
"La lotta che si svolse nel territorio del Comune (di Moriago) fu il fulcro dell'azione decisiva che condusse a Vittorio Veneto e non a torto potrebbe chiamarsi la Porta della Vittoria" (da Guida di Treviso e Provincia, 1926-1927).
V) La letteratura
Levi Spadetto nelle sue Poesie edito nel 1976 in maniera rimembrativa così ci esprime la solitudine del cippo: ìI combattenti ritti sull'attenti / gravi e solenni fissano l'altare, / dove del Piave echeggiano gli accenti / al suono di tamburi e di fanfare. / Vanno i pensieri ai giorni tenebrosi, / quando il cannone in mezzo alla fornace / cupo mieteva padri, figli e sposi / su questa terra che viveva in pace. / O benedetto suolo irrigato / da tanto sangue sparso umilmente, / se non verrà da te dimenticato. / Il sacrificio fatto atrocemente / dall'odio tra fratelli scatenato / allora morti non saran per niente.î Negli anni í60 fu inaugurata anche una stele dedicata a E. A. Mario, autore dei versi della canzone "La leggenda del Piave". Il 16 giugno 1991, in occasione del XX∞ di fondazione della Sezione Artiglieri di Moriago, fu inaugurato il monumento "Vita per la Pace" opera dello Scultore Marbal (Mario Balliana) di Fontigo. In questi ultimi anni si è molto parlato di questo luogo per i numerosi atti vandalici compiuti e in positivo della valorizzazione compiuta da Andrea Zanzotto e Marco Paolini che hanno elogiato la cura del greto e ricordato i numerosi caduti.
VII) Il Santuario della Madonna del Piave
Negli anni '50 il parroco di Moriago, Don Pietro Ceccato (1908- 1996), preventivò l'idea di costruire un Santuario dedicato alla Madonna proprio nei pressi di quel cippo eretto trent'anni prima. L'idea fu presentata anche al Vescovo diocesano di allora, Mons. Giuseppe Carraro, che ne approvò i lavori. La prima pietra del Santuario fu posta il 16 luglio 1961. I lavori continuarono per alcuni anni fino al 1965 quando il 29 giugno, solennità dei Santi Pietro e Paolo l'allora Vescovo di Vittorio Veneto, Mons. Albino Luciani che poi diverrà papa col nome di Giovanni Paolo I, consacrò con rito solenne l'edificio fra il gaudio dei moriaghesi e del Parroco Don Pietro Ceccato. Il Santuario in seguito fu abbellito da molta oggettistica sacra e arredi. Nel 1969 furono intagliati i portali di legno dallo scultore Mussner su disegno del moriaghese Enrico Tonello, posto il bassorilievo dello scultore Giardina su disegno di Bepi Modolo da Santa Lucia di Piave, donati due lampadari artistici in ferro battuto, uno rappresentate le tre caravelle, l'altro un elmetto sforacchiato. Pure un leggio in ferro ricavato da residui di filo spinato, un crocifisso ricavato da una bomba a mano e molte altre tra cui l'artistica acquasantiera, unica nel suo genere, che raffigura un soldato con l'elmetto in mano. » proprie quest'ultimo a fungere da acquasantiera. In una vetrina sono raccolti anche alcuni cimeli storici. Una campana del quattrocento fu donata dall'associazione "Ragazzi del '99" nel 1968.
Quest'area verde fa parte di "rete natura 2000" un insieme di zone protette istituite dalla comunità europea. In particolare sono stati qualificati come sito di importanza comunitaria (SIC). Questo grande spazio di verde di notevole interesse naturalistico, costituita da campi chiusi di origine medioevale è visitabile attraverso percorsi ciclopedonali. Situata tra Mosnigo, Moriago e i comuni limitrofi.
1) La storia
I Palù sono stati abitati fin dal periodo Neolitico. Una serie di insediamenti a carattere pastorale si susseguivano a ridosso della collina tra Soligo e Vidor. Gli insediamenti di pianura erano prevalentemente a specializzazione agricola. Al tempo dei romani anche il Quartier del Piave diventò oggetto di una centuriazione, che sembra trovarsi tra gli abitanti di Sernaglia, Villanova e Patean. Anche tra il tratto della Rosper e il terrazzo delle Rive si può trovare una piccola centuriazione.
Queste sistemazioni agrarie sono rintracciabili in terreni permeabili delle Piane di Moriago e di Sernaglia, invece le grave e i Palù non sono mai stati interessati da tali opere o probabilmente bocciati dalla sfavorevole natura dei terreni agrari.
Con le invasioni barbariche le popolazioni locali si rifugiarono o sui colli o all'interno dei Palù, dove le persone potevano difendersi e sopravvivere. Sorgeva allora, una sequenza di recinti rurali fortificati contornati da piccoli appezzamenti colturali necessari alla sopravvivenza della comunità. Una volta diminuite le invasioni, si verificò un riversamento degli insiemi abitativi e delle attività agrarie al di fuori della palude e della boscaglia. Un'atmosfera di maggior tranquillità fu introdotta dal Comune Medievale e piË tardi dalla Serenissima. Agli inizi del 1300 vennero chiamati i benedettini ad abitare all'abazia di S. Bona, poi arrivarono i Cistercensi ed i Camaldolesi che conoscevano le tecniche di bonifica dei suoli. Ai frati dell'abazia di Vidor risale una gigantesca opera di disboscamento e di bonifica, un po' in tutta l'area delle Piane di Moriago e Sernaglia e della zona paludosa detta "i Palù".
Dall'abazia vennero impegnati servi sia in opere di bonifica sia in lavorazione di terreni incolti. Allora il campo assumeva una funzione importante e una parte dei terreni abbandonati o diversamente organizzati venivano rifatti secondo nuovi schemi più adatti alle esigenze del momento. Nella metà del 1400 l'iniziativa individuale assunse un peso e una efficacia considerabile. Ora la trasformazione agraria si manifesta con l'uso di nuove tecniche e di nuove esperienze di lavoro quali l'impianto di nuove colture e la costruzione di canali di raccolta comuni.
2) Struttura e vegetazione dei Palù
I campi chiusi a Nord fanno parte di un più vasto sistema che si estende ad imbuto tra Colbertaldo e Farra di Soligo. I campi sono di varie forme circondati da recinti di natura vegetale e circoscritti da un fossato ai cui lati crescono delle siepi di alberi. A causa dei terreni impermeabili, della collocazione geografica e della depressione altimetrica, i Palù, a valle della catena prealpina e collinare, costituiscono una palude piuttosto anomala con problemi di ristagno e di trabocco d'acqua.
A nord di Moriago i campi si presentano stretti e lunghi e sembrano essere di epoca medievale. Le loro dimensioni sono stabilite dalle condizioni del terreno e dai metodi di aratura e di trasporto. Ai fini del risultato economico l'area è ideali per le colture foraggiere e arboree. Visto dalle cime della vicina collina l'intero territorio ha l'aspetto di una foresta appena un po' rada. La vegetazione tipica di questa area è quella delle zone umide. Essa cresce spontaneamente o sotto il controllo dell'uomo. Nei Palù di Mosnigo assume l'aspetto di un bosco dominato dalla presenza dell'ontano nero che con la sua copertura nasconde un sottobosco erbaceo costituito da lussureggianti specie palustri ed equiseti (genere di piante erbacee diffuse in luoghi umidi con fusto internamente cavo e sottili rami verdi disposti come i raggi di una ruota).
Il pedesuolo è composto da strati limo - argillosi e ricco di torba che costituiscono una potente coltre impermeabile. Oltre alle specie arboree già citate troviamo pochi e dispersi esemplari di olmo campestre e aceri. A livello arbustivo il più importante e uno dei più diffusi è il nocciolo.
Per costruire canestri o scope si usavano anche i rami flessibili del sanguinello. Nei Palù un'importante funzione ha avuto l'integrazione delle colture arboree e arbustive sapientemente conservate e utilizzate lungo i fossati. La funzionalità di questa struttura sorta e sviluppatasi per necessità di un modo contadino è forse la vera ragione della sua sopravvivenza fino ai giorni nostri. Questo ambiente ha dato all'uomo per molto tempo svariati prodotti, quali il foraggio per gli animali visto che si potevano fare più tagli durante l'anno, i frutti del sottobosco, la pesca nei ruscelli, la legna per riscaldare la casa e sostenere gli alberi da frutto e le viti.
Quest'area verde fa parte di "rete natura 2000" un insieme di zone protette istituite dalla comunità europea. In particolare sono stati qualificati come sito di importanza comunitaria (SIC). Questo grande spazio di verde di notevole interesse naturalistico, costituita da campi chiusi di origine medioevale è visitabile attraverso percorsi ciclopedonali. Situata tra Mosnigo, Moriago e i comuni limitrofi.
1) La storia
I Palù sono stati abitati fin dal periodo Neolitico. Una serie di insediamenti a carattere pastorale si susseguivano a ridosso della collina tra Soligo e Vidor. Gli insediamenti di pianura erano prevalentemente a specializzazione agricola. Al tempo dei romani anche il Quartier del Piave diventò oggetto di una centuriazione, che sembra trovarsi tra gli abitanti di Sernaglia, Villanova e Patean. Anche tra il tratto della Rosper e il terrazzo delle Rive si può trovare una piccola centuriazione.
Queste sistemazioni agrarie sono rintracciabili in terreni permeabili delle Piane di Moriago e di Sernaglia, invece le grave e i Palù non sono mai stati interessati da tali opere o probabilmente bocciati dalla sfavorevole natura dei terreni agrari.
Con le invasioni barbariche le popolazioni locali si rifugiarono o sui colli o all'interno dei Palù, dove le persone potevano difendersi e sopravvivere. Sorgeva allora, una sequenza di recinti rurali fortificati contornati da piccoli appezzamenti colturali necessari alla sopravvivenza della comunità. Una volta diminuite le invasioni, si verificò un riversamento degli insiemi abitativi e delle attività agrarie al di fuori della palude e della boscaglia. Un'atmosfera di maggior tranquillità fu introdotta dal Comune Medievale e piË tardi dalla Serenissima. Agli inizi del 1300 vennero chiamati i benedettini ad abitare all'abazia di S. Bona, poi arrivarono i Cistercensi ed i Camaldolesi che conoscevano le tecniche di bonifica dei suoli. Ai frati dell'abazia di Vidor risale una gigantesca opera di disboscamento e di bonifica, un po' in tutta l'area delle Piane di Moriago e Sernaglia e della zona paludosa detta "i Palù".
Dall'abazia vennero impegnati servi sia in opere di bonifica sia in lavorazione di terreni incolti. Allora il campo assumeva una funzione importante e una parte dei terreni abbandonati o diversamente organizzati venivano rifatti secondo nuovi schemi più adatti alle esigenze del momento. Nella metà del 1400 l'iniziativa individuale assunse un peso e una efficacia considerabile. Ora la trasformazione agraria si manifesta con l'uso di nuove tecniche e di nuove esperienze di lavoro quali l'impianto di nuove colture e la costruzione di canali di raccolta comuni.
2) Struttura e vegetazione dei Palù
I campi chiusi a Nord fanno parte di un più vasto sistema che si estende ad imbuto tra Colbertaldo e Farra di Soligo. I campi sono di varie forme circondati da recinti di natura vegetale e circoscritti da un fossato ai cui lati crescono delle siepi di alberi. A causa dei terreni impermeabili, della collocazione geografica e della depressione altimetrica, i Palù, a valle della catena prealpina e collinare, costituiscono una palude piuttosto anomala con problemi di ristagno e di trabocco d'acqua.
A nord di Moriago i campi si presentano stretti e lunghi e sembrano essere di epoca medievale. Le loro dimensioni sono stabilite dalle condizioni del terreno e dai metodi di aratura e di trasporto. Ai fini del risultato economico l'area è ideali per le colture foraggiere e arboree. Visto dalle cime della vicina collina l'intero territorio ha l'aspetto di una foresta appena un po' rada. La vegetazione tipica di questa area è quella delle zone umide. Essa cresce spontaneamente o sotto il controllo dell'uomo. Nei Palù di Mosnigo assume l'aspetto di un bosco dominato dalla presenza dell'ontano nero che con la sua copertura nasconde un sottobosco erbaceo costituito da lussureggianti specie palustri ed equiseti (genere di piante erbacee diffuse in luoghi umidi con fusto internamente cavo e sottili rami verdi disposti come i raggi di una ruota).
Il pedesuolo è composto da strati limo - argillosi e ricco di torba che costituiscono una potente coltre impermeabile. Oltre alle specie arboree già citate troviamo pochi e dispersi esemplari di olmo campestre e aceri. A livello arbustivo il più importante e uno dei più diffusi è il nocciolo.
Per costruire canestri o scope si usavano anche i rami flessibili del sanguinello. Nei Palù un'importante funzione ha avuto l'integrazione delle colture arboree e arbustive sapientemente conservate e utilizzate lungo i fossati. La funzionalità di questa struttura sorta e sviluppatasi per necessità di un modo contadino è forse la vera ragione della sua sopravvivenza fino ai giorni nostri. Questo ambiente ha dato all'uomo per molto tempo svariati prodotti, quali il foraggio per gli animali visto che si potevano fare più tagli durante l'anno, i frutti del sottobosco, la pesca nei ruscelli, la legna per riscaldare la casa e sostenere gli alberi da frutto e le viti.